Confini / Orizzonti
Meditazioni Mediterranee
18.12.2020/12.04.2021

Confini/Orizzonti è la mostra inaugurale di Space9 – Museo Immateriale dell’Immagine.
Nelle sale espositive della collettiva sono presenti parte delle opere inserite nella collezione permanente di Space9 – MidI, selezionate dai curatori Sonia Borsato e Giovanni Follesa; gli scatti di alcuni fotografi siciliani, scelta critica di Ezio Ferreri; un lavoro fotografico realizzato in Catalogna da Myriam Meloni e Arnau Bach, con il patrocinio dell’Ajuntament de Barcelona.
Ciascuno dei curatori ha dato un’interpretazione personale, intima, del significato Confini/Orizzonti.
La mostra nasce dalla volontà di strutturare un dialogo tra Sardegna-Sicilia-Barcellona, nella consapevolezza di essere tappa irrinunciabile in un mare di geografie e nella responsabilità di leggere Il Mediterraneo che, per sua natura, unisce e divide, concede e toglie, racconta e silenzia.
Testo introduttivo di Sonia Borsato
Testo introduttivo di Giovanni Follesa
LINDE, di Myriam Meloni e Arnau Bach
una introduzione di Sonia Borsato
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..il guardo include
Esiste una annotazione in cui Giacomo Leopardi rivela che la prima versione dell’Infinito prevedeva l’espressione “Celeste confine”, solo in un secondo momento sostituita da “Ultimo orizzonte” (come sappiamo un po’ tutti da vaghe reminiscenze liceali).
Il giovane Leopardi opta dunque per la profondità della parola «orizzonte», capace di racchiudere contemporaneamente sia un limite che un’apertura spalancata verso infiniti spazi.
La cosa interessante è come i due termini – confine e orizzonte – si trovino a colloquiare non solo nel titolo della collettiva che presentiamo ma anche in questa occasione poetica, contendendosi granelli semantici.
Confine ha radici latine: cum finis, con una fine, un termine; estrema linea che segna la fine di un territorio o paese. Pur se vincolato a una dimensione apparentemente pragmatica, è un termine che richiede una certa “prospettiva” per poter essere compreso in tutte le sue sfumature.
Il tracciare una linea di demarcazione, infatti, presuppone un “al di qua” e un “al di là”. Quello che dunque potrebbe inizialmente sembrare un limite diventa invece una prospettiva, un’interfaccia, una finestra di comunicazione.
Del resto, sempre tornando al latino, il sostantivo confinis indicava il vicino, il confinante appunto, ma anche colui che ci era affine: una separazione ma anche un’intimo legame.
Orizzonte invece deriva dal greco orizon, denominativo di oros, confine.
Pur mantenendo il senso della limitazione, trattandosi di una linea immaginaria, estremità ultima verso cui si può spingere lo sguardo, l’orizzonte sviluppa un senso di finitezza che risiede esclusivamente nella nostra percezione e non in una condizione tangibilmente fisica.
Entrambi dunque compartecipano di uno strano destino: avere un possibile utilizzo quotidiano e concreto, a tratti con sfumature negative e claustrofobiche, ma in realtà racchiudere una natura filosoficamente spalancata, volta alla speranza, al confronto; destinati a collegare l’indeterminato e il determinato, il finito e l’infinito; spesso applicati al campo della conoscenza, designano l’anelito a varcare i margini del nostro stesso sapere.
Come immaginarsi nel mondo senza che vi sia un “oltre”, un prima e un dopo, un qui e un altrove?
Il senso di una collettiva come questa nasce da questi sottesi interrogativi, dalla frequentazione di interstizi sociali e emotivi, dal coraggio di posizionare occhio e cuore in “luoghi” poco esplorati dell’esistenza.
Proprio nei giorni di questa “inimmaginabile stagione umana” che stiamo vivendo, mi soffermo spesso sulle parole di Alessandro Mendini “il futuro potrà essere positivo solo se compariranno utopie culturali per una nuova umanità”.
Forse è un po’ questo il sogno utopistico, di una collettiva così vasta e eterogenea che triangola tre punti nel Mediterraneo, tre inflessioni di luce – la Sardegna, la Spagna e la Sicilia – assistere al futuro nel suo divenire; contemplare l’avvenire nel suo interrogarsi e trasformarsi; suscitare negli osservatori una sorta di nostalgia per quell’esperienza profondamente umana che è la contemplazione dell’orizzonte, il superamento di un limite: che si tratti della tensione tra centro e periferia, tra infanzia e età adulta, che sia il giorno che vince la notte o infine il mare che divora la riva… sono solo metafore tangibili di esperienze filosoficamente potenti, capace di farci comprendere più a fondo e di indurci a ridimensionare la reale portata degli eventi della vita.
Esperienza, forse, che tendiamo a sottovalutare, a vivere con eccessiva leggerezza, impedendo loro di rivelarci a noi stessi.
Sonia Borsato
Non accontentarti dell’orizzonte.
Cerca l’infinito.
Jim Morrison
Orizzonte: [dal lat. horīzon -ontis, gr. ὁρίζων -οντος, propr. part. pres. di ὁρίζω «limitare» (sottint. κύκλος «circolo»)]. La linea apparente, a forma di cerchio o di arco di cerchio, lungo la quale, in un luogo aperto e pianeggiante, il cielo sembra toccare la terra o il mare, tanto più ampia quanto maggiore è l’altitudine del luogo dal quale si osserva.
Confine: [dal lat. confine, neutro dell’agg. confinis «confinante», comp. di con- e del tema di finire «delimitare»]. Limite di un territorio, di un terreno. Limite di una regione geografica o di uno stato; zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e cominciano quelle differenzianti. Limite, termine in genere.
Nelle pagine delle sue Confessioni sant’Agostino c’è un exemplum, disarmante nella sua semplicità e ricco di significato. In riva al mare, il Santo, meditava sul mistero della Trinità, volendolo comprendere con la forza della ragione. Si accorse allora di un bambino che con una conchiglia versava l’acqua del mare in una buca. Incuriosito dall’operazione ripetuta più e più volte, Agostino interrogò il bambino chiedendogli: «Che fai?».
La risposta del fanciullo lo sorprese: «Voglio travasare il mare in questa mia buca». Sorridendo Sant’Agostino spiegò pazientemente l’impossibilità dell’intento.
I due punti di vista inquadrano il punto: il legame tra orizzonti e confini. Non so se esista un termine che definisca tale contiguità, che aiuti a distinguere gli uni (orizzonti) dagli altri (confini), ma se c’è un insegnamento in sant’Agostino forse è proprio questo: orizzonti e confini non esistono, se non nel nostro stato d’animo, nella visione del mondo e della vita. Nella volontà di chi agisce.
È questione di opportunità: optare per una strettoia irta di categorie mentali o aprirsi al Mistero dell’infinito.
Il bambino impertinente, in conclusione, risponde così a Agostino: «Anche a te è impossibile scandagliare con la piccolezza della tua mente l’immensità del Mistero di Dio».
Per spiegarci che il paradigma della complessità è la fascinazione del quotidiano, che le scelte personali disegnano le prospettive delle geo-grafie personali ora capaci di perdersi negli orizzonti ora, invece, costrette negli steccati dei confini.
È il processo di continua metamorfosi interiore. Ondivaga percezione di se stessi nell’aderire a quello che pare essere il senso del mondo.
Ora, però, se esistono delle geo-grafie esistono anche i loro atlanti, capaci di contenerle. In una suggestione fisica (orizzonti) e mentale (confini): il tutto è connesso a tutto.
E non c’è nulla di sovversivo nel ritrovarsi di qua o di là, se non la nostra volontà di assumersi la responsabilità del destino.
Gli scatti in mostra sono un invito al viaggio oltre i confini personali per raggiungere orizzonti individuali e collettivi. Non è importante partire, però. Non c’è niente di fisico, sia chiaro. È più impegnativo (o proficuo) scegliere un punto di vista: guardare come Agostino o il fanciullo? E in un attimo il confine si fa orizzonte. O viceversa.
Giovanni Follesa
Corpi Terresti
C’è una riminiscenza liceale che torna spesso alla mente quando ci si confronta con un certo tipo di ricerca fotografica.
Il termine “orizzonte degli eventi”, definizione molto poetica usata per definire l’estensione immaginaria che circonda ogni buco nero.
I buchi neri, senza che si scivoli in una lezione di geografia astronomica, sono dei corpi celesti con una superficie esterna composta di materia attrattiva che fagocita tutto quello che gli si avvicina in un continuo divenire, modificarsi, espandersi.
In una giostra di rimandi forse prevedibili, “corpo celeste” evoca Anna Maria Ortese: “su un corpo celeste, su un oggetto azzurro collocato nello spazio vivevamo anche noi: corpo celeste, o oggetto del sovramondo, era anche la Terra. Eravamo quel sovramondo. Quando ho compreso questo, sono stata presa da un senso di meraviglia, di emozione indicibile. L’emozione diveniva la sorpresa e la gioia di una più grande scoperta, quella di un destino impareggiabile. Mi trovavo anche io sulla Terra, nello spazio, e il mio destino non era molto dissimile da quello degli oggetti e corpi celesti tanto seguiti e ammirati. Una cosa era certa, era nozione ormai incancellabile: tutto il mondo era quel sovramondo. Anche la Terra e il paese dove abitavo; e la collocazione, o vera patria di tutti, era quel sovramondo!”
Le parole di Ortese si posano delicate come “strutture di luce” sul racconto fotografico di Myriam Meloni e Arnau Bach – “LINDE”, confini, che percorre quattro quartieri periferici di Barcellona – rendendo palpabile la loro capacità di tessere una narrazione ininterrotta tra sovramondo e sottomondi; l’abilità di rendere giustizia a un continuo lavorio di ridefinizione, di costruzione che non è solo urbanistica o paesaggistica ma soprattutto antropologica.
Questo resoconto a “quattro occhi” va oltre la relazione dell’uomo con lo spazio, o per lo meno trascende un contesto in senso strettamente fisico, per coglierlo nelle sue possibilità emotive, mentali e spirituali. Nel confine che inventa la periferia si coglie una narrazione intuita nel suo compiersi, smagliarsi, ricomporsi e uno spazio che prima – pochi anni fa – era economicamente etichettato e socialmente stigmatizzato ora è davvero “orizzonte degli eventi” che attrae il cambiamento, registra il meticciamento e, di conseguenza, costruisce un futuro inimmaginabile.
La presenza umana non appare dunque inopportuna, dannosa o inquieta ma emerge come quella che il poeta Andrea Zanzotto definirebbe “insediamento-fioritura”: «l’uomo, quale momento più ardente della realtà naturale, si colloca in essa al punto giusto, la riordina alle sue leggi. Il paesaggio viene dunque ad animarsi e a meglio splendere nel lavorio umano che vi opera, perché al di sotto della sua apparente insignificanza esistevano elementi che un “giusto” antropocentrismo ha fatto risaltare.»
Pur nella precarietà della forma o in una s-graziata massificazione edilizia, le regole di un’imminente utopia esistenziale che scompaginerà le regole non scritte del comune relazionarsi si stanno riscrivendo qui, nei luoghi in cui nessuno è propriamente a casa ma dove ciascuno sta cercando di mettere radici; angoli dove le lingue si mescolano in neologismi e i sapori si contaminano, le musiche influenzano e i cm di spazio conquistano.
Niente è idilliaco, ovviamente. Ci sono “interminabili spazi e sovrumani silenzi” a intervallare la crescita e lo sviluppo, a dare il ritmo da una zona all’altra, un quartiere all’altro, ma anche
uno straordinario corpo a corpo che si identifica a più strati, ritaglio su ritaglio: l’immagine, i luoghi, le vite che vi si muovono dentro, cambiandoli e significandoli, le memorie che trascinano e che sedimentano.
Con freschezza penetrante gli scatti di Meloni e Bach riescono a frantumare l’opacità di un pregiudizio rinnovando un vocabolario sentimentale che si carica della responsabilità del nuovo millennio; uno sguardo politico e consapevole che ricostruisce il mondo.
Sonia Borsato